È possibile che la fine del mondo per come lo abbiamo conosciuto sia avvenuta di fronte ai nostri occhi nel modo più paradossale che riesco a immaginare, e cioè in modo sia straordinariamente evidente che straordinariamente sottile. Questo momento di agnizione così determinante avveniva nel dicembre del 2012: un anno in fin dei conti insignificante, se paragonato a quelli che si sono avvicendati repentinamente dal 2016; otto anni, densi come un breve secolo, che si sono susseguiti due decenni dopo la fine del secolo breve.
Non c’è bisogno di scomodare la barra di ricerca di Google: il 2012 è l’anno in cui, tra le altre cose, abbiamo imparato il cognome “Schettino” e in cui è morta Whitney Houston (due avvenimenti già così enormi da rendere disorientante scoprire che sono successi a meno di un mese di distanza). È anche l’anno della seconda vittoria di Obama alle elezioni presidenziali e, a dicembre, e questo potrebbe trarre in inganno chi ha buona memoria, del massacro di Sandy Hook. Lo stesso dicembre, che è il mese ideale in cui fare cose con l’obiettivo di rendere impossibile ad altri di eccepire, il Movimento 5 stelle ha registrato il suo atto costitutivo. Tutte cose che, seppur sconfortanti o esaltanti (confido nella capacità di ognuno di noi di sapere dove collocare le rispettive emozioni senza aver avuto bisogno di vedere Inside Out. Anche il 2), non hanno distrutto il mondo o, perlomeno, il mondo per come lo concepiamo. È altresì vero che il terribile-momento-di-agnizione-della-realtà (ci ho provato, ma non posso acronimizzarlo in Tár, neanche l’accento sulla prima a di “agnizione” mi aiuta), per quanto possa essere stato decisivo, è passato inosservato.
Nel 2009 Miranda Bailey pronuncia una delle frasi che, non inspiegabilmente, più mi è rimasta appiccicata alla memoria. La frase in questione è stata scritta da Debora Cahn (sceneggiatrice, oltre che per la serie in questione, per The West Wing e Homeland. Un mistero come non sia invece uscita dalla testa di Shonda Rhimes) per Bailey nell’episodio conclusivo della quinta stagione di Grey’s Anatomy, ed è: “If you’re not scared, you’re not paying attention”. “Se non hai paura è perché non stai prestando attenzione” (potrei tradurla meglio se solo non fossi un pessimo traduttore e non mi concentrassi solo su questioni secondarie, come la differenza tra l’inglese “to pay”, pagare, e l’italiano “prestare” quando si parla di attenzione. Ok, “pay” significa anche rendere, va bene) mi sembra un passaggio così grandemente sottovalutato dell’impero aforistico di Rhimes che alle volte mi tocca andare a cercare quali sono le frasi in cima alle classifiche di citabilità solo per trovare “Pick me” e sentirmi finalmente nel giusto.
Mi sono arrovellato per anni, chiedendomi perché quella battuta non godesse di una reputazione migliore. Certo, si tratta dell’ennesima variante di una frase già sentita, come quella internettianamente attribuita a Miles Davis di cui non riesco a provare la veridicità; certo, compare pure nella quattordicesima stagione dei Simpson; e certo, è una battuta che arriva pochi minuti prima di uno dei finali di stagione più memorabili della serie. Eppure, la sera prima del referendum che ha portato l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, dopo che una mia amica mi ha confidato lugubremente che avrebbe vinto il “Leave”, ne era certa, era appena tornata da Londra e, nonostante io dicessi che poteva anche non essere così (ma che ne sapevo, io?), non ne era convinta, non sono riuscito a pensare a una frase che descrivesse, anzi, accusasse più efficacemente lo stato di assopimento, di ignavia in cui ho l’impressione di vivere.
Sia chiaro, non sono riuscito a pensare a una frase migliore perché sono un pozzo di ignoranza: abbeverarsi alla mia fonte significa buttare giù un secchio e tirar su con la carrucola fatti del tutto irrilevanti su Popular di Ryan Murphy.
Arrivo al dunque: il 21 dicembre 2012, cioè 21.12.12, cioè una datazione abbastanza ridicola nella sua ineleganza, avrebbe dovuto sancire la fine dei tempi secondo misteriose profezie maya; che si trattasse di fine dei tempi nel senso di grandi distruzioni o di fine dei tempi come grandi sconvolgimenti, non è dato saperlo. Quel che era certo era che, secondo le stanze di internet, che già si stavano sclerotizzando in stanza dei social e che già da tempo avevano cominciato a riempirsi di chiacchiericci, in quel periodo dell’anno, in qualche ora del giorno, in qualche zona del paese, forse localizzata interamente dentro la cucina di qualcuno, sarebbe successo il finimondo.
In cosa è consistita questa fine, allora? È consistita, per la prima volta nella storia, se così si può dire, nel raggiungimento del miliardo di visualizzazioni di un videoclip su YouTube, più precisamente della canzone Gangnam Style di Psy. Ho cercato in tutti i modi ma non sono riuscito a scoprire l’ora esatta della miliardesima visualizzazione; un simmetrico “ore 21.21.12” avrebbe risolto le succitate questioni di ineleganza, ma non si può chiedere al destino di essere anche puntuale. Si può chiedere invece a un adulto di considerare seriamente Gangnam Style che fa un miliardo di visualizzazioni la fine del mondo come lo conoscevamo?
Douglas Rushkoff sosteneva che “Internet opera al meglio quando crea simulazioni e approssimazioni dell’interazione umana su grandi distanze, piuttosto che stimolare l’interesse tra persone che si trovano nello stesso luogo”. Era il 2010, nei due anni successivi i social network non avevano ancora cominciato a sovrapporsi completamente all’idea che abbiamo di internet, ma la sciocca concitazione attorno al 21 dicembre e il crescere vertiginoso delle visualizzazioni non ricordano forse l’eccitazione sinusoidale dei social nel 2024 rispetto agli eventi? In quella data si sono tenute le prove generali dello spettacolo a cui assistiamo quotidianamente; non sarà stata quindi la fine del mondo come lo conoscevamo ma piuttosto l’inizio del mondo a cui ci siamo abituati malvolentieri oggi (parlo per me, che sono particolarmente insofferente a qualsiasi evenienza che non sia possibile trascorrere nella massima calma). Un fenomeno irripetibile, o che viene promosso come tale; una coincidenza, o un’interpretazione sufficientemente spericolata da squarciare il senso della realtà, che certuni però ritengono lungimirante; l’incapacità di separare l’interpretazione dalla realtà; lo scemare progressivo dell’attenzione che culmina non nell’indifferenza, ma nell’oblio, un oblio che somiglia più alla necessità del cervello di fare pulizia per allocare le risorse necessarie ad affrontare il prossimo evento che al dimenticare per lontananza.
È una fine che abbiamo accettato come necessaria, un po’ come Reynolds Woodcock che accetta di farsi occasionalmente avvelenare dalla moglie Alma ne Il filo nascosto perché la loro relazione possa sopravvivere? Le approssimazioni dell’interazione umana create da internet di cui parlava Rushkoff sono oramai approssimazioni delle interazioni digitali dei primi anni del web 2.0?
Pensavo a tutto questo (ovviamente non è vero, ma immaginatemi colto) fin dall’inizio del concerto di Mitski tenutosi all’Apollo Theater di Londra, lo scorso 8 maggio. Pensavo a tutto questo e contemporaneamente mi facevo distrarre dalla varietà di umani presenti allo spettacolo, ma soprattutto dall’età media degli umani presenti, che definisco umani impropriamente perché la suddetta età media era, per la gioia di Papa Francesco, rasente quella di un feto: mi ero immaginato di ritrovarmi in mezzo a un mucchio di thirtysomething ironici-nevrotici, la crema del ceto medio riflessivo di Instagram, per finire poi tra orde di tardoadolescenti con le facce bluastre da sovraesposizione a TikTok.
Mitski è stata benedetta dagli algoritmi, imboccando più volte le strade delle centinaia di milioni di riproduzioni (purtroppo per lei, non delle centinaia di milioni di dischi venduti), e va da sé che il seguito che è stata in grado di costruirsi doveva essere composto per la maggior parte da adolescenti. Eppure, come tutti vittima dell’eterno presente, mi stupivo, e mentre mi stupivo mi veniva in mente quello che avevo scoperto precedentemente su di lei, e cioè che non è che sia una figura proprio simpaticissima nei confronti dei suoi ammiratori: dal rispondere “You don’t know me” a un “I love you” sbraitato a caso dalla folla durante un concerto, al dichiarare nelle interviste di sperare di fare un sacco di soldi per poter essere lasciata in pace (ridendo, eh, ma mica ridendo così tanto da convincerci che non lo speri davvero), Mitski ha evidentemente una personalità e delle speranze condivisibilissime in teoria (chi sono io per non dire che vorrei un sacco di soldi ed essere lasciato in pace?); nella pratica, però, assistere a un certo divismo mediocre sgretola qualsiasi convinzione che possa sostenerle artisticamente.
Ma cosa intendo? Madonna santa che giro lunghissimo che sto facendo, e sono pure solo a metà.
Capiamoci, Mitski è bellissima e talentuosissima, sia a livello canoro che performativo, in modi che io non riuscirei a riprodurre nemmeno se da domani decidessi che ne andasse della mia vita; creperei dopo essermi detto “fai un passo di danza oppure crepa”. A un certo punto dello spettacolo interrompeva la musica per inscenare la consueta chiacchierata con la platea: prima raccontando di una sua cugina, che non credeva affatto nelle possibilità di Mitski di avere successo e che in quel momento di trovava proprio lì, in mezzo al pubblico, punzecchiandola per la poca avvedutezza (piccarsi per una cosa successa almeno 20 anni prima denota un livello di rancore francamente lodevole); poi deridendo le adolescenti strillanti per l’incapacità di emettere uno strillo adoperando correttamente il diaframma, provvedendo lei stessa subito dopo a dare dimostrazione di strillo ben diaframmato. Tutto questo sghignazzando con malcelata soddisfazione ed esprimendo gratitudine per tutti i presenti in quel modo compitamente falso che solo gli statunitensi sono in grado di padroneggiare.
Era evidente che avesse imparato la lezione. Dopo anni passati a bistrattare i fan, anni di uscite da stronza, aveva deciso di cambiare tattica: continuare a bistrattarli, epperò senza che se ne accorgessero.
Il concerto si articolava in coreografie elaborate, eseguite con perizia e senza voluttà, composte da movimenti piuttosto meccanici, ripetitivi, che la facevano sembrare una marionetta. Tralasciando tutte le possibili noiosissime metafore che potremmo appiccicarci sopra, la sensazione era che avesse imbastito un sofisticato spettacolo da circo itinerante. Il pubblico si divideva tra quelli riprendevano con lo smartphone e quelli che controllavano freneticamente setlist.fm per assicurarsi che fosse in pari col programma perché incapaci di aspettare l’arrivo del loro pezzo preferito. Tutti, immancabilmente, ricominciavano a strillare come se stessero esplodendo le pignatte del soffitto all’arrivo delle sue canzoni di maggior successo su TikTok: canzoni malinconiche, rassegnate o romantiche, immedesimabilissime. Quello che non era importante, invece, era quello che succedeva sul palco: lo spettacolo non era importante. Mitski che si contorceva lentamente su una sedia non era importante, il suo formidabile controllo vocale non era importante. Che cos’era importante, allora?
In un articolo che non riesco a recuperare, ricordo che Mitski si fosse lamentata di quel “I love you”, urlato durante un suo spettacolo, perché la infastidivano certe superficiali esternazioni di affetto: avrebbe preferito che si complimentassero con lei per la bellezza delle sue canzoni. “Screw beautiful. I’m brilliant. If you want to appease me, compliment my brain” diceva una. Non utilizza nessun social network, che si sappia, ma sarà per quel “I love you” che, da tempo, i profili che la rappresentano pubblicano video in cui spiega come compone le canzoni: segue procedimenti cerebrali, producendo melodie e rattoppandone i pezzi che le sembrano incompleti scegliendo le note più appropriate, guardandosi intorno durante la giornata e infondendo un certo lirismo negli aspetti banali della realtà. Compliment my brain!
Questo approccio impersonale e metodico, piacevolmente noioso per gli standard contemporanei, non sembra avere un ruolo nel racconto che ammiratori e media fanno di lei. A leggere le recensioni del concerto, quello a cui ho assistito era un evento unico (picco della sinusoide?), una squisitezza conturbante. All’uscita dal teatro, circondati da chiacchiere e feti che controllavano le proprie registrazioni per assicurarsi che potessero essere condivise sui loro profili, ci siamo guardati, perplessi ma moderatamente ammirati per la paraculaggine di Mitski. Spuntava nelle nostre menti la domanda: a che cosa abbiamo assistito?
Sei mesi fa, quando ho cominciato a pensarci su, e a scrivere, sono partito con l’idea di argomentare fino ad arrivare a una conclusione del tipo “siamo tutti scemi, sta roba era una cagata e assistervi, quasi avvolti in una specie di nebbia mentale, con la prospettiva di confermare le proprie aspettative senza concedersi la possibilità dell’inatteso, tipo scoprire che sta roba era una cagata, è l’ennesima conferma che gli smartphone si sono pappati il nostro spirito critico”. Che sì, è poi quello che ho scritto finora, che hanno scritto un po’ tutti meglio di me, che tutti scrivono ogni giorno almeno dal 2012. Poi però mi sono fermato e ho cambiato direzione, perché qualcosa di importante doveva pur esserci.
In un articolo del giugno scorso, Elizabeth Goodspeed citava Kate Wagner scrivendo: “[people] do not want to think critically about the things they consume” and feel that “if they absorb any criticism about the things they consume it will magically ruin their enjoyment of them”. Va be’ dai non lo traduco, voi tre che mi leggete avete capito. Avete capito e avrete pensato a Taylor Swift, a Barbie, ai Måneskin, a quei consumi culturali degli ultimi dieci anni su cui abbiamo dibattuto come se ne andasse della nostra vita, tipo “di’ qualcosa su Taylor Swift oppure crepa”. Ma se non riusciamo più a trattenere un pensiero quel tanto che serve a guardarlo da più punti di vista, o anche a rinunciarvi, a farsene una ragione insomma, è solo perché siamo scemi, oppure è anche perché quelli non sono davvero consumi culturali? Quando i consumi di massa hanno smesso di orientare il gusto e il pensiero e sono diventati coccole nostalgiche si sono anche sovrapposti alle identità individuali. Si è meno disposti al dialogo quando l’oggetto della critica, o meglio, della polemica sul picco della sinusoide, sei tu.
C’è un libro che ha provato a rispondere a questo quesito: Mostri di Claire Dederer.
Terribile, passiamo oltre.
Si possono trovare più spunti interessanti in La vita e le avventure di Robinson Crusoe: Crusoe ci mette ventotto anni ad andarsene dall’isola su cui è naufragato, ma dopo essere tornato a casa, ed essersi procurato risparmi e famiglia, ce ne mette solo sette a decidere di tornarci. Un po’ si torna sempre dove si è stati bene, un po’ barche contro corrente risospinte senza posa nel passato. Da solo sulla sua (brutta, per sua stessa ammissione) isola, Crusoe alterna periodi di inedita devozione religiosa a periodi di industriosità febbrile, rinunciando anche abbastanza velocemente alla speranza di poter abbandonare l’isola. Il suo orizzonte è così ristretto che l’unica cosa che può fare è coltivarlo (letteralmente), abbellirlo, arricchirlo. Un ragionamento sofisticatissimo davvero: uno si ritrova naufrago e, incredibilmente, cerca di far venir su quattro cereali sfigati per non crepare di fame. Cosa vuoi fare quando sei da solo, disperso nell’Atlantico? Diciamo che il potenziale poetico della isola-orticello-bolla si è esaurito abbastanza in fretta.
If you’re not scared, però. Crusoe paura ce l’aveva, ed è per questo che, sebbene sia tornato alla sua isola, appena ha potuto l’ha lasciata. Il mondo finisce quando smetti di comprenderne la difficoltà, che può essere soverchiante ma anche appassionante; quando i limiti della realtà coincidono solo con quelli del proprio sguardo. Il mondo è finito a causa dei social network? Non doveva esserci qualcosa di importante? Cosa ho cambiato direzione a fare?
La realtà è fastidiosa, per questo tutti torniamo sempre di più alla nostra isola.
Per esempio, lo sapevate che, se fosse stata prodotta una terza stagione di Popular, RuPaul avrebbe abbandonato Mary Cherry in un canile?