Where have all the ideas gone?

Nel 1997, la cantante statunitense Paula Cole pubblica il suo singolo di maggior successo secondo la classifica Billboard Hot 100, Where have all the cowboys gone?, e c’è una possibilità molto alta che questo non significhi niente per moltissime persone. Innanzitutto perché le classifiche non sono strumenti di misurazione assoluti, e poi perché Paula Cole è, per ragioni di consuetudine o, per essere più precisi, per questioni anagrafiche, vista la limitatezza temporale del suo successo, legata dai pochi che ne ricordano il nome a un’altra sua canzone ben più famosa (una canzone la cui fama, come tutte le meteore, precede quella dell’autrice); ma anche perché, se non fosse stata tra le cantanti principali del Lilith Fair, probabilmente nemmeno noi poveri gay di provincia sapremmo chi è, figuriamoci gli altri.

Quindi, Paula Cole canta Where have all the cowboys gone?, e canta dal punto di vista di una casalinga frustrata, non con il piglio satirico di Desperate Housewives né con quello polemico delle voci fuori campo di Donne da slegare. Sceglie invece di raccontare una storia di disillusione, di progressiva presa di coscienza. Quello che è interessante, però, è che lo stile della canzone non tradisce la critica più o meno implicita fatta da Cole agli stereotipi attribuiti ai generi, perciò chi non conosce la cantante, o non si concentra sulle sfumature del testo, ne perde il significato e la canticchia interpretando la casalinga disperata che prima dà un’occhiata al marito seduto sul divano con la panza che trabocca dalla camicia in flanella, e poi rivolge lo sguardo alla finestra sognando mandibole di ferro e voci stentoree.

Chi non presta attenzione si perde l’idea, in verità l’unica della canzone. È anche per questo motivo che la ricordo bene: perché il più delle volte ne storpio il titolo facendolo diventare “Where have all the ideas gone?”. Dove sono finite le invenzioni narrative?

Comincio a sentir parlare di Saltburn subito dopo la conclusione della seconda stagione di Euphoria, momento in cui diventa chiara la traiettoria professionale degli attori più promettenti del cast (a prescindere da Zendaya). La strategia di comunicazione del film viene impostata fin da subito attorno a Jacob Elordi, che pochi mesi dopo ancora viene annunciato nel cast del nuovo film di Sofia Coppola, a conferma della sua condizione di belloccio di turno feticcio di registi interessati a creare storie sulla dissacrazione dell’adolescenza (Korine, che aspetti?). Nell’agosto del 2023, infatti, le case di produzione del film rilasciano i primi due poster di Saltburn: il primo, che è quello che tutti ricordano e che tutti cominciano a far circolare morbosamente sui propri profili social, ritrae Elordi visto dal basso e in controluce (ma con un’illuminazione sufficiente a distinguerne chiaramente gli obliqui), seduto con le gambe divaricate mentre fuma una sigaretta; un po’ ragazzaccio sfrontato, un po’ spogliarellista con ambizioni autoriali. Il poster comincia a essere diffuso assieme alle dicerie sulla possibile trama omoerotica del film.

Saltburn in sé non si discosta poi più di tanto da questo chiacchiericcio da educande che squittiscono per ogni minima depravazione; e se manca sia l’invenzione narrativa che la scrittura (a eccezione di una battuta data a Rosamund Pike, stupenda), quello che rimane è la forma. Si potrebbe parlare dal rapporto d’aspetto, che tuttavia è solo una componente tra le tante che costruiscono il contesto temporale e non un dispositivo narrativo come in Mommy di Xavier Dolan; si potrebbero osservare e studiare costumi e oggetti di scena, comunque meno attraenti di quelli di Call me by your name (potrei anche non scrivere “di Luca Guadagnino”, ma lo farò lo stesso). Siccome di questi dettagli mi frega poco o niente, quello su cui mi concentrerò è la struttura del film e di quelle di Theater Camp e di Bottoms, anche loro del 2023.

Theater Camp è un film indipendente (non vorrei che questa parola traesse in inganno nessuno facendolo passare per l’esperimento coraggioso di un manipolo di scappati di casa: il film è stato prodotto, tra gli altri, da Erik Feig e Will Ferrell) ambientato in un campo estivo per bambini e adolescenti amanti dei musical. Due ex frequentatori del campo, dove ora insegnano, e fuori dal di cui non hanno una carriera vera e propria, cercano di risollevarne le condizioni scassate dopo che la sua direttrice, interpretata da Amy Sedaris, la cui maggiore presenza avrebbe sicuramente giovato al film, finisce in ospedale.

Ora, sempre per la questione dei poveri gay di provincia, questa premessa dovrebbe incuriosire qualsiasi anima orfana di una cultura dello spettacolo degna di questo nome; siamo d’altronde in un paese dove il massimo dell’intrattenimento consiste nei programmi televisivi, non so se avete presente l’orrore. Insomma Theater Camp dovrebbe incuriosire, e lo fa, poi però è narrativamente pigro. Ma ci torniamo.

Bottoms è invece una commedia che non mi sento di definire satirica, nonostante sia questo l’aggettivo più frequentemente utilizzato per descriverla: sia perché prende molto più in prestito dalla cultura che dovrebbe criticare di quanto poi si preoccupi di prendersene gioco, sia perché è la stessa Emma Seligman, la regista, a non essere interessata al supposto aspetto satirico del film. La storia ruota attorno al tentativo di due studentesse di abbordare le cheerleader più popolari della scuola creando un club di autodifesa per sole ragazze. A prescindere da tutto il resto, la trama è effettivamente solo questa, e lo svolgimento è prevedibilmente lineare. L’intento di girare un’alternativa queer alle commedie demenziali statunitensi è chiaramente solo un espediente commerciale (nel senso di classificazione ai fini di distribuzione, non di ambizione a riempirsi le tasche con i profitti) che non arricchisce la storia né contribuisce alla creazione di un immaginario, ma semplicemente fornisce ai quindicenni, o ai trentenni condannati alla quindicennitudine, tipo me, un soggetto in più in cui potersi identificare.

La struttura di cui parlavo, quella che dovrebbe accomunare i tre film, non è narrativa ma concettuale, comunque non poetica: Saltburn, Theater Camp e Bottoms sembrano essere pensati come storie ma concretizzati come idee. L’idea del linguaggio, disordinata, fatta di corrispondenze e richiami, succede al linguaggio.

Durante le ricerche per la tesi (si potrebbe provare una pena inaspettata per uno che si ritrova a citare i libri letti per la tesi se non si avesse già letto sette righe più su che è condannato alla quindicennitudine) mi imbatto in Presi nella rete di Raffaele Simone, il quale espone la tesi di Étienne Bonnot de Condillac per cui le lingue sono una «risorsa che ha l’effetto di costringere il pensiero, per sua natura disordinato e spesso caratterizzato da immagini simultanee, a scomporsi in parti e a ordinarsi in successione. La narrazione di storie è possibile soltanto perché le lingue costringono a dire una cosa prima e altre dopo. È l’udito, si può dire, che impone alle lingue questa proprietà. In questo modo, le lingue costringono il pensiero ad articolarsi e a scomporsi, rendendolo così comunicabile agli altri». A questo punto uno potrebbe ragionevolmente chiedersi se a, questo testo, quello che state leggendo e non quello di Condillac o Simone, sia una ramanzina sui pericoli della visione (ni) o se b, la mia tesi fosse davvero così elementare (sì, ma il soggetto era indiscutibilmente bellissimo).

Allora perché Theater Camp sollecita curiosità, ma poi non soddisfa la sete di storie? Perché non genera quella sorta di necessità di un conforto nostalgico che spinga a tornare a vederlo, o anche solo tornare a pensarci? Perché i suoi personaggi non si sedimentano nel nostro immaginario? La stessa cosa vale per Bottoms e Saltburn.

Al netto degli aspetti cinematografici (trama, interpreti, regia e via dicendo, ma anche budget e comunicazione), il perché credo risieda nella differenza teorizzata da Condillac tra intelligenza simultanea e sequenziale e tra ragionare per immagini, per nuvole di concetti anziché per testi.

Più che semplicemente citare altre opere di finzione, la trama dei tre film si sviluppa in un susseguirsi di tableau vivant, di meme, in cui la storia è già data e allo spettatore resta solo riconoscerne i codici espressivi o culturali.

È almeno dal 2020 che Vulture pubblica articoli dedicati a quella contraddizione che è la cultura di massa di internet, fatta di fenomeni che, seppure vengano alimentati potenzialmente da milioni di persone in tutto il mondo, rimangono oscuri alla maggioranza delle persone. Gli articoli vengono raggruppati in una sezione chiamata Extremely online, che è la variante più indulgente e meno obiettiva della definizione chronically online. Se, nel bene e nel male, passi gran parte delle giornate invischiato in conversazioni al limite dell’assurdo su Twitter (X è il nome attuale), cominci leggendo una ricetta su Instagram e finisci in un gorgo di video che vorrebbero in appena quindici secondi spiegarti come pulire i carciofi, se insomma sia i consumi culturali che l’intrattenimento che le relazioni interpersonali non solo vengono fruiti online, ma sempre senza prescindere dalle immagini, allora sei un navigatore cronico della rete. Significa, nel più dei casi, che non potrai parlare di quella stronzata che hai visto su TikTok con nessuno che non sia cronicamente online come te, perché quella stronzata è linguisticamente disconnessa dalla vita comune, ed è invece interconnessa con decine, se non centinaia, di altri riferimenti visivi e concettuali diffusi sui social.

In Saltburn la regista Emerald Fennel dà la precedenza alla meticolosa costruzione delle scene per rivelare nel modo più esplicito possibile tutto il campionario di opere di finzione che hanno contribuito a costruire il suo immaginario (Il talento di Mr. Ripley, certo, ma ci troviamo anche Harry Potter, non solo come oggetto di scena coi libri, Romeo+Juliet, persino Gilmore Girls e Gossip Girl e, perché no, True Blood). Non solo attinge dalla cultura di massa, o meglio, dalle culture di massa di internet, ma produce materiale visivo che sembra costruito seguendo gli stessi procedimenti che le generano. Produce la vaga idea di un’idea. Poco importa che il materiale visivo sia pertinente perché curato dall’Antonelli in veste di antropologo culturale di turno.

Così anche Theater Camp e Bottoms: il primo si prende gioco del mondo dello spettacolo statunitense e il secondo delle storie adolescenziali tutte incentrate attorno agli stereotipi eternormativi, ma lo fanno omaggiando altro in modo quasi inspiegabilmente evidente; il citazionismo alla rinfusa però, anche il più sofisticato, è destinato a farsi soppiantare da qualcosa di più intelligente.

Insomma, tutto questo per dire semplicemente che quello che accomuna Saltburn, Theater Camp e Bottoms è il modo in cui si appropriano della dimensione estetica di tutta una serie di riferimenti lasciando che la storia si nutra di briciole. Dove sono finite le invenzioni narrative? E la produzione di miti? Io stesso non mi sto inventando nulla, figuriamoci: se lo chiedeva già Umberto Eco parlando dei serial televisivi, rispondendosi sapientemente che, se ci sono critiche da fare osservando il declino delle invenzioni narrative, vanno mosse alla “modestia inventiva, e cioè all’incapacità di produrre miti del nostro tempo”. E quindi pure Paula Cole, incapace di produrre nuovi successi, è da gennaio del 2024 che insiste nel registrare video in cui canta stralci di quella canzone ben più famosa di Where have all the cowboys gone? nel tentativo di replicare la fortuna che ha avuto Murder on the dancefloor grazie a Saltburn. È un’idea l’uso di questa traccia come sottofondo musicale della scena finale? O è solo un meme?

Abbiamo bisogno di storie ma ci impuntiamo nel cercare di replicare quelle migliori del passato, fallendo anche nel riprodurle. Mentre scrivo questo monotono brontolio mi viene fatto notare che sarebbe interessante chiedersi perché abbiamo bisogno di invenzioni e miti: perché, oltre a trovarli attraenti, oltre a irretirci, ci servono? Quello che so è che le immagini sono idee digerite, sono il risultato di un’esplorazione (e non, come leggo spesso, affranto, nei testi critici all’inizio del percorso espositivo di una mostra, esse stesse esplorazioni), sono già semplificazioni, riassunti; coi riassunti ti puoi preparare a prendere 24 all’esame, sicuramente non ci tiri su un’invenzione narrativa. Le idee memorabili, quelle che riescono nell’impresa di risolvere la tensione creata dalle spinte dell’esigenza espressiva e dell’osservazione del reale, si nutrono di complessità, e la restituiscono a loro volta se vengono ordinate, trasformate e arricchite, se vengono quindi sviluppate oltre la loro premessa. Se non seguiamo questo percorso, e siamo incapaci di inventarne un altro altrettanto o più efficace, torneremo non solo a guardare ma a riciclare il lavoro degli altri, ancora e ancora.

Nella mia limitatissima limitatezza ho comunque provato a cercare una risposta meno scontata; non trovandola, non riuscendo prevedibilmente a produrre un’invenzione, ho fatto anche io come tutti: mi sono rifugiato all’ombra di quelli capaci alla ricerca di un modo più intelligente di dire tutto questo. Nel 1437 Leon Battista Alberti scriveva un apologo intitolato L’ombra dell’uomo:

«L’ombra dell’uomo, per diventare più grande, mostrava desiderio del tramonto. Non appena avvertì di dover scomparire assieme al sole, anelò invano di vedere il sole altissimo in mezzo al cielo.»